Stanno alimentando positive impressioni nella lotta al nuovo Coronavirus, le cellule staminali mesenchimali. Ottenibili con relativa facilità dal midollo osseo, tessuti grassi, o dal sangue mestruale ad esempio, esse possono essere facilmente “espanse” in laboratorio.
Il SARS-CoV-2 come sappiamo utilizza una “chiave” localizzata nel suo capside (la proteina Spike), che interagisce con il recettore ACE2 localizzato sulla superficie di molte cellule, come quelle polmonari o endoteliali; l’ingresso richiede l’intervento di una proteasi, TMPRSS2, che agisce proprio sulla proteina Spike. L’infezione produce una tempesta di citochine, ossia il rilascio massivo di citochine proinfiammatorie, e l’epitelio respiratorio e l’endotelio ne escono fortemente danneggiati.
Per limitare appunto questa tempesta di citochine, l’uso delle staminali mesenchimali rappresenta un’interessante possibilità, anche perché essendo prive sia del recettore ACE2 che di TMPRSS2 non possono essere infettate da SARS-Co-V-2. Dopo la somministrazione in vena, esse si distribuiscono uniformemente nei polmoni, contrastando la tempesta di citochine e promuovendo addirittura la riparazione di tessuti danneggiati. Pare che riescano a produrre molecole che si legano sia al virus che ai suoi recettori che si trovano sugli pneumociti, e non producono reazioni avverse se non alcuni effetti collaterali di lieve entità. Dai dati raccolti, per adesso su poche decine di pazienti, ne è emersa una netta tendenza alla riduzione della mortalità, esercitando azioni antivirali, immunomodulanti, riparative ed antinfiammatorie. La speranza è che tale efficacia risulti e si confermi anche su più “larga scala”.
Un anticorpo monoclonale è una molecola sviluppata in un laboratorio progettata per imitare o migliorare la risposta naturale del sistema immunitario del corpo contro un invasore, come un cancro o un’infezione.
Gli anticorpi monoclonali hanno un vantaggio rispetto ad altri tipi di trattamento per l’infezione, perché sono creati per colpire specificamente su una parte essenziale del processo infettivo.
L’uso delle associazioni di più anticorpi monoclonali amplia ulteriormente la gamma di armi terapeutiche da utilizzare contro il coronavirus sia perché hanno dimostrato maggiore efficacia e sia perché si può ridurre il rischio di fallimento del trattamento nel caso in cui un paziente fosse infettato da una variante del virus resistente magari ad una tipologia di anticorpi.
Bamlanivimab, etesevimab, casirivimab, imdevimab sono anticorpi monoclonali che agiscono contro COVID-19. I quattro anticorpi sono progettati per legarsi alla proteina spike di SARS-CoV-2 in siti diversi. Legandosi alla proteina spike, impediscono al virus di penetrare nelle cellule dell’organismo.
Gli anticorpi si legano a diverse parti della proteina e il loro utilizzo in associazione (casirivimab con imdevimab e bamlanivimab con etesevimab) sembra quindi avere un effetto maggiore rispetto all’uso in monoterapia. Queste combinazioni infatti potrebbero abbassare la mortalità del 70%. Soprattutto soggetti a rischio o con almeno 1 patologia regressa, ne dovrebbero beneficiare, se presi in tempo.